domenica 20 novembre 2011

Czeslaw Milosz


Canzone sulla fine del mondo

Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.

Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.

E chi si aspettava folgori e lampi,
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché il calabrone visita la rosa,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.

Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.

Testo tratto dal libro “poesie” di Czeslaw Milosz (Biblioteca Adelphi 127)    

Nella presentazione di Iosif Brodskij, all’inizio del libro, all’inizio della sua riflessione,  spiccano le seguenti citazioni:
“ Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czeslaw Milosz è uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande”.
Sono termini immensi che, a volte, possono essere strumento della mercificazione.
Czeslaw, non corre il rischio, è certo. Non corre il rischio di perdersi nei dedali dell’ordinario perché la sua poesia non è: “poesia da scrittoio”. Non è poesia “progettata” con una serie di materiali “laterizio -letterari”,che solo attraverso lo studio della letteratura, lo studioso apprende. I suoi versi nascono dallo scavo, dalla trincea o meglio, dallo scavo delle fondamenta vitali.
Sono infrastrutture di esperienze che  scolpiscono la pelle di chi vive una vita intensamente.


Nei ricordi di bambino, ho una traccia rimasta nitida: sentivo dire più o meno una volta all’anno, che stava per sopraggiungere la fine del mondo.
Allora, correvo da mio padre per chiedere spiegazioni e lui sorridendo, mi passava la mano tra i capelli e mi diceva di non pensarci e di tornare a giocare.
Però ero insistente e lo perseguitavo con la mia paura così, la sera durante la cena, riproponevo il quesito.
Una volta mi disse: “ la fine del mondo, è l’ape che muore dopo il suo ciclo vitale, l’albero che secca per la pioggia che non cade. La fine del mondo, è un vecchio che spegne il suo giorno piego tra le ossa consumate, è un giovane che cade al fronte. La fine del mondo, è anche il fiore che cede lo stelo al vento, la mosca che rimane schiacciata tra il tavolo e la mano nervosa di un uomo. La fine del mondo, è un perseguitato che cade sotto tortura  o una madre che spira nel parto. La fine del mondo, avviene ogni giorno e ciò che rattrista è che pochi lo notano. Anche l’indifferenza può essere la fine del mondo”

Oggi, leggendo Milosz, ho scoperto questa poesia. Inevitabile la connessione con il ricordo di mio padre.
Anche per lui potrei usare le stesse parole immense, ma non credo sia corretto. Esse dirigono il lampo ad  una piccola porzione di vita umana. Una porzione, purtroppo, che non  racconta il valore di una vita intera.

P.S.: mio padre non conosceva Czeslaw Milosz   

giordan

  

martedì 8 novembre 2011

Sylvia Plath



Sylvia Plath, nasce a Boston il 27 ottobre 1932. La sua poesia è carica di elementi naturali e “naviga” in un moto quasi perpetuo, tra i respiri della vita e le staticità della morte.

Questo è quanto leggendo alcune sue poesie, ho percepito. Non vuole essere questo mio sentire una traccia uniformabile a chiunque naturalmente. Come sempre scrivo, la poesia è: un linguaggio universale che comunica nella lingua madre e che sopravvive tra le pieghe di altre lingue, lasciando al vento diverse essenze. Alcune impercettibili, ma presenti.

La sua universalità la rende incatturabile, indefinibile, inclassificabile o … visibile o invisibile
In relazione alla sensibilità del lettore.     

Sylvia, muore suicida all’età di trent’anni nel febbraio del 1963.
Si è scritto molto sulla sua “diversità mentale”.
È tutto pieno, senza spazio di salvezza.
Sylvia è: una traccia che testimonia in parte, la nostra impietosa società.
Sylvia è: una vittima di se stessa.
Sylvia è: stata una donna con un cuore, un cervello, un amore …
Sylvia è: noi, lei, le sconfitte e le vittorie di un mondo sempre più umano nella sua disumanità.
Giordan

The beast

He was bullman earlier,
King of the dish, my lucky animal.
Breathing was easy in his airy holding.
The sun sat in his armpit.
Nothing went moldy. The little invisibles
Waited on him hand and foot.
The blue sisters sent me to another school.
Monkey lived under the dunce cap.
He kept blowing me kisses.
I hardly knew him.

He won’t be got rid of:
Mumblepaws, teary and sorry.
Fido Littlesoul, the bowel’s familiar.
A dustbin’s enough for him.
The dark’s his bone.
Call him any name, he’ll come to it.

Mud-sump, happy sty-face.
I’ve married a cupboard of rubbish.
I bed in a fish puddle.
Down here the sky is always falling.
Hogwallow’s at the window.
The star bugs won’t save me this month.
I housekeep in Time’s gut-end
Among emmets and mollusks,
Duchess of Nothing,
Hairtusk’s bride.



La bestia

Prima lui era uomo-toro,
Re del piatto, mio animale fortunato.
Nel suo arioso dominio respirare era facile.
Il sole dimorava nelle sue ascelle.
Niente ammuffiva. I piccoli esseri invisibili
Erano a sua completa disposizione.
Le suore azzurre mi mandarono in un’altra scuola.
La scimmia viveva sotto un berretto d’asino.
Lui continuava a mandarmi baci.
Io lo conoscevo appena.

Lui non si fa scacciare:
Zampettino, mugolante e dispiaciuto,
Fido Coccolino, intimo delle viscere.
La pattumiera gli è sufficiente.
Il buio è il suo osso.
Offendilo come vuoi, lui risponderà.

Pozza di fango,felice faccia-da-truogolo.
Ho sposato un armadio di immondizia.
Mi metto a letto in una pozzanghera di pesci.
Quaggiù il cielo precipita sempre.
Alla finestra c’è il porcile.
Questo mese gli insetti-stella non  mi salveranno.
Casalinga nelle budella del Tempo,
Fra formiche e molluschi,
Duchessa del Nulla,
Sposa di Zanna-pelosa.

(autore Sylvia Plath)
  
(poesia tratta da: SYLVIA PLATH: LE MUSA INQUIETANTI)
Raccolta: “i poeti allo specchio” Arnoldo Mondadori Editore ed.1985

mercoledì 2 novembre 2011

Léopold Sédar Senghor

Léopold Sédar Senghor
Léopold Sédar Senghor, nasce a Joal (Senegal) il 9 ottobre 1906 e muore a Verson (Bassa Normandia in Francia), il 20 dicembre del 2001.
Una figura importante per il suo paese natale, in quanto poeta, politico ed infine, primo presidente del Senegal dal 1960 (post liberazione dal colonialismo francese) al 1980.
Di madre lingua francese, condivise pensieri ed esperienze con Aimé Césaire (poeta, scrittore e politico francese nato in Martinica), Vate e ideologo della Négritude. Senghor, Primo membro africano della Accadémie française, è stato il fondatore del partito politico “Blocco Democratico senegalese” nella sua terra d’origine.
Tutt’oggi, è considerato una delle figure intellettuali più importanti dell’Africa: grazie alle sue opere, si è data maggiore valenza alla cultura africana, sia nel grande continente che nel mondo intero.

E il disco infuocato del sole
E il disco infuocato del sole declina nel mare vermiglio.
Ai confini della foresta e dell’abisso, mi perdo nel dedalo del sentiero.
L’odore mi insegue forte  altero, a pungere le mie narici
Deliziosamente. Mi insegue e tu mi insegui, mio doppio.
Il sole si immerge nell’angoscia
In una messe di luci, in un’esultanza di colori e di grida irose.
Un piroga sottile come un ago nella ferma intensità del mare,
uno che rema e il suo doppio.
Sanguinano le rocce di Capo Nase, quando lontano si accende il faro delle mamelles.
Al pensiero di te, così mi trafigge la malinconia.
Penso a te quando cammino e quando nuoto,
seduto o in piedi, penso a te mattino e sera,
la notte quando piango e sì, anche quando sono felice
quando parlo e mi parlo e quando taccio
nelle mie gioie e nelle mie pene. Quando penso e non penso,
cara penso a te.  

(poesia tratta dal libro: Senghor – Poesie dell’Africa) Bandecchi & Vivaldi editori

Scegliere una poesia da un libro, non è cosa facile. Innumerevoli sono le dinamiche che, alla fine, lasciano l’irrazionalità a decidere. Dico irrazionalità, perché in poesia non è sinonimo di incoscienza, ma vela spiegata al vento tra - versi di-versi.  Ho pubblicato questo testo di Senghor, perché stacca il pensiero costante del poeta dalla guerra.  Una guerra sanguinaria consumata in Senegal contro il dominio francese. Un testo che, sembra, inciampi ad ogni espressione, cada e si rialzi poi, spinto dal desiderio pulsante, di condividere il ritmo cardiaco con l’Africa. Un’Africa dagli scenari impetuosi e perciò, “aritmico”.  Versi che parlano concretamente della “calda madre” e che respirano nelle emozioni condivise tra scrittore e paesaggio.
È percettibile un gioco che modella le parole creando un movimento, un transito magico che confonde il soggetto: terra?  Donna? O entrambe ?
Nel testo è il genere maschile a costituire l’ossatura descrittiva iniziale ed è rivolto al sole.
Nei passi successivi, l’attenzione sposta gli occhi e si fa terra, madre o compagna assumendo per tale ragione, il genere femminile.
Al termine di ogni poesia, si può pensare di decidere come scrittore e pensare di capire come lettore, cosa "CAVARE" da un magma di lettere, ma “cara penso a te” taglia e cambia gli scenari aprendo ovunque, nuove prospettive.
Non è importante cogliere il seminato frutto del seme, ma cogliere delle emozioni. In questo modo, una semina può dare frutti emotivi diversi ad ogni sguardo, sia esso rivolto ai tramonti africani o alle strisce di luce che, come spade, s’infilano nelle feritoie delle prigioni o nelle grate delle fabbriche.

giordan